Sabato 26 Giu 2010 - ore 10:30

La città del futuro

Fondazione SDN

Via Gianturco 113

Rassegna stampa
Coordinamento

Virman Cusenza

Testimonianze di giovani laureati napoletani eccellenti

Angelo Farnetano, Alessio Gemma, Lorenzo Pone, Annalisa Scognamiglio

Interventi

Stefano Caldoro, Bernardo Secchi, Sergio Vetrella

Comunicati stampa

2030: la Napoli del futuro
Il racconto scritto da Alessio Gemma per il Sabato delle Idee

Lo allaccio al polso tre ore dopo la partenza, due ore prima dell’arrivo. In un istante che sta a mollo su una pozza di Mediterraneo, dove il vento scarica il deserto e fiuta la fresca scosciata del Golfo. Napoli, ti sto abbordando. Maschio, il grecale si è appena slacciato davanti al ghibli. E io? Me ne sto su questa nave a gingillarmi con un braccialetto per gravide che vogliono evitare il mal di mare. È che anch’io sono gravido: ma di nausea al solo pensiero di questa città. Così, il cerchietto mi serve più per il passaggio tra le mura native che per il viaggio. Perché è come con lo sciù a limone che quella volta di notte mi castigò la digestione e da allora non l’ho più toccato: sì, io di Napoli mi sono rimangiato anche i ricordi. Scelsi le dune e le fortune libiche, il 26 giugno 2010. Pensai: le guerre sono vendemmie di notizie in un mondo di penne troppo astemie. Sono emigrato. In Libia, a fare il reporter. Evirato dal delirio e dal destino di questa città. Il sea-band, il braccialetto, l’ho comprato in uno spaccio clandestino di Tripoli. “Ma dura due giorni consecutivi?”, ho chiesto a Rafele, vecchio magliaro napoletano sbarcato a Corfù nel ’56. “Portati le pasticche, è meglio”. “No, poi mi attacca l’ipocondria”. “Ma se a Napoli ti vedono con un braccialetto, si credono che sei andato carcerato”. “No, Rafe’, vero che sono passati vent’anni, però che diamine mi conoscono”. “Allora, con sto coso, sicuro si pensano che sei diventato ricchione”.

Eh già, questa sarà ancora la città che accoglie, mai ti ferisce, ma se può ti arrostisce a salve di sfottò. Allora, meglio nascondere il sea-band. Infilo in tasca la mano destra. Cavolo, lascio la Libia e vengo a Napoli per frustrare la vergogna dietro uno chador. Alla biglietteria del Beverello agguanto di spalle Tony. “Ehi, come è andata la traversata? Certo, che ti ha incastrato alla fine tua sorella. Ti ha costretto a tornare a Napoli. Scommetto che avrai pregato ogni giorno perché non si sposasse”. Ci abbracciamo, quando all’improvviso avverto una boccata di calore dietro la schiena. Mi volto e scorgo fiamme voluminose, lingue di fuoco alitate dalla sagoma perentoria del Vesuvio. E Tony che spegne sul nascere il mio allarmismo: “Tranquillo, non è un incendio. È solo la combustione controllata delle ore 11. Benvenuto nella Napoli del 2030”. “Carogne di piromani”, esclamo. E lui: “No, veramente si chiamano car-onion: sono macchine che operano in regime di vaporizzazione flash, detto onion peeling, a sfoglia di cipolla, raggiungendo un livello di infiammabilità …”. “Tony, la lezione no, lo so bene che sei ingegnere chimico”. Sulla mia arcata sopracciliare s’ingobbisce la forma di un punto interrogativo. Non capisco l’effetto flambé sul vulcano più pericoloso del mondo. “Vedrai che cambiamenti in città …”: così c’era scritto nella sua ultima mail e ora ha l’occhio destro che, mentre mi guarda, si concede una prima strizzata di trionfalismo. Lo sa che in questi anni non ho più tirato una sola striscia informativa su Napoli: il sottopancia di un tg, manco la riga di un giornale. Eppure, avevo lasciato il Vesuvio col sesto condono edilizio sul cratere e due discariche inaugurate nei dintorni del Parco. “Ne bruciamo due mila tonnellate in più al giorno, inquinando dieci volte in meno”. “Ma cosa?”. “A monnezza. E poi vacci ora a piantare le case sulle pendici, è impossibile. Caro, abbiamo preso due palombi con una fiammata sola”. “Sì, ma a parte le car-onion, come le chiami tu, le cipolle vere e proprie, o le albicocche, i pomodorini, che fine fanno?”. “Scusa, il sole è lo stesso, la terra pure, stanno nelle serre a duecento metri, sempre Vesuvio è”. Mi è spuntato un ascesso di incredulità nella gola. Così sputo dal dolore: “Ma è come accendere ogni due e tre un po’ di candeline vicino alla miccia di un detonatore?!”. E Tony di rimando, con lo sguardo lungo sul Vesuvio: “Appunto, tanto prima o poi quello ce la fa lui la festa”.

Di sbieco, senza preavviso, mi taglia l’eco di una musica ancestrale. Familiare nelle lontananze. Come un radar, l’orecchio mi direziona verso la Stazione Marittima. Mi avvicino, sono un sonnambulo delle note, con Tony che resta indietro e io che spingo la ricerca rapida dentro il mio archivio musicale. È funiculi, funiculà. Senza dubbi. La scena depista: sullo sfondo un’arca di Noè della Msc Crociere e al centro dello spiazzale un camioncino dell’immondizia. Intorno al quale si allarga una corona senza spine di cristiani, radunati come ad un rave party sulla spiaggia di Torregaveta. Cerco una fonte sonora più realistica, finché non focalizzo un altoparlante sulla motrice del furgone. Juke-box incompreso. Al mio fianco sciama la tuta blu di un operaio che regge un sacchetto di … “Vetro – mi anticipa Tony. Oggi è il giorno di raccolta del vetro. Domani è il turno della plastica con O Sole mio”. Due spazzini caricano in pochi minuti centinaia di buste di rifiuti. Nere. Come la pelle dei cobra richiamati dall’otre al suono dei pifferai indiani. Si può non crederci: ma sono le canzoni napoletane a trascinare questi individui in una danza dai tinelli delle loro case ai container dell’Asia. E penso ai decenni fetidi di emergenza, quando la soluzione era lì a portata di folclore: l’arte della posteggia che ispira il sistema della raccolta porta-a-porta. E in due parole Tony mi sbrina pure la faccenda: “Te lo ricordi il napoletano che fa scena muta a scuola se c’è da recitare una tabellina e poi da grande si applica più di Einstein ad accocchiare terno e quaterna? Uguale, uguale, non ti diventa scienziato dell’ambiente, ligio al dovere della differenziata, se di mezzo ci sono le sue canzoni del cuore?”. Questo è il Tony che prende le distanze. Che mi racconta dei camion gorgheggianti per i vicoli dei quartieri. Del repertorio classico e pure delle anteprime … “E se chiudiamo la trattativa con Gigi D’Alessio …”. “Ma canta ancora?”. “Ahi voglia. Però si è messo in testa che lui è un trans-melodico”. “Cioè?”. “Cantante per tutte le età, i generi e le stagioni. Che non può associarsi ad un’etichetta di rifiuti. Chissà, magari lo convinciamo per la quota di indifferenziato”. Intanto la tammurriata verde è finita. Il camion ripartito. “E vedrai la città come è pulita – continua Tony. Di notte fanno le strade spingole spingole. Se non li avessimo ammaestrati?”. “Ma chi?”. “I topi. Quelli c’hanno fusibili al posto dei succhi gastrici: ingoiano di tutto. E di notte liberiamo le fogne per ripulire le strade. Ma tu sai quanto mangia una zoccola?”. Un sorriso apre il sipario delle mie labbra: dal doppio senso dell’incisivo fino a mostrare la malizia del molare. Lui mi capisce a volo: “Bravo, in una notte mangia quanto fotte”.

Dalla macchina, la spazzatrice, all’animale, il ratto. Ho un presentimento intellettuale. Che sia l’eterno ritorno dell’uguale? Allora chiedo a Tony: “ma mo’ i napoletani lavorano pure di meno?”. Mi intima di seguirlo. Usciamo dal porto e risaliamo la china del centro antico. Ci ritorno. In apnea sensitiva. Poca la gente che circola. Disunita. In una città che quasi si dilata nel momento in cui ti abitua ad un respiro spettrale. Forse è solo la desolazione che frana sullo spazio vitale di un 45enne mentre ripesca dall’album della beata giovinezza i luoghi della sua bolgia emotiva. Siamo a Port’Alba. Sul muro dove c’era lo scempio della scritta Mastiffs, ci sono allineate le foto di politici nazionali, industriali del Nord, opinionisti del tubo catodico. Hanno il dito puntato contro e l’espressione di I Want you. La mia faccia arrossisce come una spia: sono in riserva di comprendonio. Mi soccorre Tony: “è quando hai davanti agli occhi chi ti ha fatto del male, chi ha detto male di te, che non perseveri nell’errore. E magari non imbratti più la parete che hai di fronte”. Ci sto. La buona educazione come una conquista sul pregiudizio altrui. Entriamo nel cortile di un palazzo, di lì in un basso dove l’odore di vernice e lo stridore del legno grattugiato ci proiettano in una bottega. Tra file di scalpelli e scheletri di violini appesi alle pareti come cucù. Qui dove si costruiscono strumenti musicali, si orchestrano gli accenti più disparati del mondo. Cinesi, americani, africani. Per default scelgo la soluzione inglese e scopro in James Byrne, 68enne della Contea di Wicklow, a mezz’ora da Dublino, un apprendista artigiano che qui impara a costruire mandolini. Per regalarne uno ad ognuno dei suoi quattro figli. Esalta la maestria dei suoi insegnanti. Indicandomi gli unici quattro indigeni napoletani. Sui quali Tony m’insinua godurioso: “quei quattro sono ex corsisti. Lsu. Lo capisci: questi talmente che non volevano faticare che il lavoro adesso lo insegnano. Dai banchi alla cattedra, ti rendi conto. E da tutto il mondo vengono ad apprendere dai napoletani: l’artigianato, il restauro, la pizza, i servizi turistici e d’igiene urbana”. Che poi bisognerebbe sentirlo questo professore irlandese sbrodolare sulla nostra scuola musicale del settecento, sui violini della gloriosa famiglia Gagliano, che sembra il nome di una marca di latte scaduto, invece no, e io me la rido pensando a Stradivari, al museo di Cremona, agli affari dei liutai sforzeschi, che sarebbero i più richiesti nel mondo, e dico che sì, saremo pure terroni, ma mo’ cari cremonesi vi resta solo da fare il torrone. Tre semplici lettere, lsu: la formula chimica del terrorismo metropolitano. Anch’io da bambino, Robinson Crusoe napoletano, avevo la mia i.so.la: così si chiamava il progetto di inserimento lavorativo per diecimila specialisti in discipline olimpioniche: scalatori di tubi innocenti, lanciatori di pietre, bestemmie e sacchetti, centometristi in fuga dai poliziotti e soprattutto tedofori dei cassonetti dell’immondizia. Perché qua la buttavano un po’ tutti sull’estetica. E l’economia si riduceva ad una manovra di chirurgia plastica: mentre il resto dell’Occidente cresceva su curve naturali di sviluppo, grazie a capitali sodi e a progetti solidi, quaggiù si palpava una ricchezza sfatta con protesi d’impresa pubblica e siliconate di sussidi statali.

Costeggiamo di nuovo via Port’Alba, dove le ombre si serrano sempre più vaste. Preparando la scorta al passaggio della sera. Incrociamo all’improvviso preti in abiti talari e medici in camici bianchi, divisi in fila indiana. È un processione zebrata che risale verso Piazza Bellini. Mi accodo, superano l’ingresso del Policlinico e io mi fermo davanti al cancello. Ai lati, due enormi edicole votive. Ebbene, quell’immagine amalgama un’intuizione commerciale: pillole e preghiere sono ovunque beni a domanda rigida ma solo a Napoli perfetti sostituti. “Aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi peggiorando …”: Tony mi sussurra nell’orecchio questo pezzo del Vangelo di Marco in cui si narra di una donna malata da oltre dodici anni. E io che stavo almanaccando su nozioni economiche di elasticità, associo liberamente che il problema di quella donna è nella sdrucita calzamaglia che si ostina ad indossare, che più ci prova e più si sfilaccia, perché in realtà la vera paziente di questa storia è la sanità stessa, azzoppata da debiti e interessi legali, che hanno aperto nel collant del sistema un buco difficile da rammendare. E allora non certo per i medici si è costretti a spendere tutti i propri averi. Cucio una risposta con ago truce: “Ti piacerebbe soffermarti sulla coscia malata della signorina ma il guaio è nella coscienza di chi ci ha ridotto …”. Mi stronca: “E chi meglio di loro. Ci hanno salvato. Adesso i bilanci sono lindi come il fazzoletto dell’Immacolata. E gli ospedali nuovi, i macchinari all’avanguardia. Certo, con tutto le proprietà che hanno a Napoli, l’attaccamento della gente, offerte, messe, lumini, pellegrini, era il minimo”. “Ma di che stai parlando?”. “La Curia, caro, ha trovato la cura per la sanità. E mo’ gestiscono loro. Li hai visti, dottori e prevetarielli, pappa e ciccia stanno”. Di sicuro, penso, la devozione è stata il bicchiere mezzo pieno di questa città. E l’altra metà, forse, un vuoto che solo la misericordia della Chiesa poteva colmare. Dal tono ieratico, con il gesto della mano che gira a manovella, Tony passa al legittimo sospetto: “Credi che così lo facevano Papa nel 2015 il nostro cardinale”. Affondiamo nel ventre della città. Mi propone: “dai, rifatti un giro nella Cappella San Severo?”. E senza volerlo mi conduce su via Benedetto Croce. Non lo sa, ma ha appena poggiato su questa testa il 45 giri di un sentito risentimento civile. Benedetto Croce. Benedetto filosofo che hai crocifisso per sempre le profumate cervella di questa città. Croce e delizia: per il tuo buon nome hanno pagato il pegno di un insano spiritualismo. Croce come incognita: se solo avessero assunto l’impegno del calcolo, della regola algebrica, della risorsa in preventivo. Sì che non avrebbero acceso debiti sulfurei per fondare le loro grandi opere sulle banche dell’acqua. Il Principe Sansevero, no. Con i suoi giochini alchemici chissà che non abbia generato lui questo Frankenstein di napoletano: la testa di Benedetto Croce, la pancia di Achille Lauro, le braccia di Corrado Ferlaino e le pudenda di Matilde Serao. Di una donna? Sì, direbbe Tony: “A Napoli sono le femmine che portano le palle”. Una giravolta ci riconduce a Piazza Dante. Solo adesso noto la campana di vetro attorno alla statua incappucciata del sommo poeta. Negata. Sopra, una taglia: 5 milioni di euro. Firmato: Goldman Sachs. Si sta facendo notte, ma il morso della curiosità mi fa chiedere a Tony: “Ma i turisti ora dove li portate?”. Imbuchiamo la metro. Da sinistra l’occhio è abbacinato dalla tinta sulla facciata del Convitto Nazionale. Quel rosa antico, patina di nobiliare eternità, che colora tutta l’architettura settecentesca. Non ci avrei giurato stamane di sguincio a Palazzo Reale. Ma è così, ne ho la conferma. È diventato fucsia. Nel colore c’è la filettatura umana della storia. A ciascuno il suo: a Firenze il biondo platino dell’ingegnoso Farinata, a Napoli il rosa acceso del civettuolo Farinelli. E ora sì che libero la mano destra col sea-band, quasi rachitica al buio della tasca. Non resisto: devo mandare un sms a Rafele, il magliaro di Tripoli. Ci scrivo: “Non ci crederai, ma qua Gay-Odin s’è comprato pure i Palazzi”.

È come viaggiare a 100 km/h nella infinita trasparenza di un cristallo. Perché la galleria ha pareti di vetro e dal sedile del metro s’intravede appena la scia degli antichi manufatti, reperti sotterranei, domus greche, vascelli romani. “Che te ne pare? Sul treno sono montati lettori ottici che scannerizzano le immagini. Lo spettacolo, mentre tu corri, lo stanno studiando in diretta nei laboratori di archeometria dell’Università di Harvard o nei cantieri navali di una società di Sydney. Copiano i velieri. E se non era per quelli che mollavano i miliardi col cavolo che a Napoli si chiudevano i cantieri”. Rifletto. Siamo le lenti di ciò che altri vedono lontano da noi, grazie a noi, di una visione che è lì, di fronte, ma sfugge alla velocità con cui la attraversiamo. Tony insiste: “che poi mica è beneficenza, siamo in concessione e tra 99 anni tutto questo sarà loro”. “Ma questo significa che …”. Mi zittisce: “E che sfrattano i treni? Poi, so’ 99 anni: ma tu quanti anni vuoi campare?”. Scendiamo. Destinazione Bagnoli. Tuffati in una fiumana umana sgorgata dalle più remote fessure della terra. Un fischio assordante, come la sfiatata di una balena gigante. Lo inseguiamo. È il rombo di un motore, collegato ad uno pistone di ghisa sotto il lungo pontile di via Bagnoli. Sopra, in rampa di lancio, un velivolo, in bilico tra sommergibile e navicella spaziale. Si fionda impetuoso sugli ottocento metri di passerella. Per poi catapultarsi nell’aria, tra boccate di incredulità collettiva. Ai suoi lati scoppiano tubi di gomma che lo tengono sospeso in equilibrio aerostatico. In volo, soffice, come un aquilone agganciato alle stelle da braghe invisibili. Alla fine, in picchiata, s’immerge sotto acqua e scompare lontano: in un mare defilato dalla solita solfa degli idrocarburi. Mi volto e, dietro, la torre dell’Italsider regge un’ampia ruota panoramica: le psichedeliche a formare un planisfero con Napoli come perno e il resto del mondo attorno. Nel cielo un carnevale di luci. False, spudorate, come in tutti i parchi giochi. Sono schizza di arcobaleno vomitate dopo un acquazzone troppo alcolico. E poi i chioschi, lo zucchero filato arrovellato verso il cielo, quasi a soppalcare le nuvole del paradiso. E le giostre che riproducono i personaggi fotografati sulle mura di Port’Alba. Ora hanno le facce tristi mentre bambini giulivi se li ingroppano. Anni di battibecco pubblico sul futuro di Bagnoli fino a che non ti arriva l’industria del divertimento acrilico, ad iniettare come un boia adrenalina nelle vene mirabili di questa baia. Napoli Disney. Un moccioso sui 3 anni sta per raccogliere da terra un lecca-lecca intonso. Pericolo, adesso lo mangerà. No, colpo di scena, lo rifila a quello che dovrebbe essere il fratellino più grande, ignaro perché girato di spalle. In cambio, commosso, quest’ultimo gli offre una caramella amaranto mezza sbertucciata. A volte l’altruismo eleva lo stato di cattività della specie. Eccolo, vigile, si avventa il papà di questa allegra comitiva: ha visto tutto, ramanzina al piccolo, a cui sottrae l’ingiusto bottino. Poi, invece di restituirla all’altro figlio, che fa: mangia lui la caramella. C’è un’allerta sul volto di questo trentenne, un disagio in agguato che non ha nulla della spensierata soperchieria dei suoi coetanei di vent’anni fa. Un disagio che, forse, mi sta informando di qualcosa. Delle parlate al Circolo che non coinvolgono più. Del caffè scorretto, chissà da quando, fuori agli chalet. Dell’aria che bagnava il sudore di salsedine e ora la sento anch’io che è diventata una pellicola di fumo negli occhi. Perché mo’ si compra. A caro prezzo. L’aria e tutto il resto. Vai a capire chi l’ha venduta. Di certo non è più gratuita. No. Caro La Capria, la bella giornata non è più gratuita.

Ho avvistato Napoli da oltre dieci ore senza ancora aver toccato casa. Rientriamo in metro, con Tony che imbraccia un’espressione sardonica. “Dai, mo’ sì che te piace o’ presepe. Ma sicuro, non lo ammetterai. Così come il fatto di essere fuggito per un puntiglio ideologico”. Puntiglio? E allora mettiamoci i due punti su quella maledetta primavera del 2010. Io che in quel 29 marzo fisso catatonico i risultati del 2005. Perché lo capisco che un milione e ottocentomila voti sono sempre un’opinione. Opinabile, certo. Ma non accetto che ora quell’opinione possa significare solo svista, connivenza o suggestione. E dovermi scegliere io una delle tre opzioni. Il canto del cigno o il sonoro pernacchio. Il punto non è scoprire di essere diventati più soli. Ma convincersi di essere stati sbagliati. Per quindici anni. Vissuti senza gli anticorpi del passato. Perché a nove anni sei strafatto di presente. E l’ideologia non c’entra. Perché l’ideologia è un modo per prendere il toro della storia per le corna. Ma a nove anni la storia sono le ali di un gabbiano che ti porti addosso per spiccare il volo. E allora non è che ti hanno escluso dalla storia, caro De Gregori, no peggio: hanno scippato il senso alla tua storia. Perché se la maestra ti dice che hai adottato un monumento che dopo quindici anni cade a pezzi, allora ti hanno lasciato orfano. Io che a nove anni scrivevo i testi delle canzoni per decine di manifestazioni pubbliche. No alla camorra, Vicolo pulito. Io che ho raccolto i fondi per il restauro della Chiesa di San Domenico Maggiore. E a ventisei anni ti ritrovi su una strada cosparsa di burro alle spalle e col burrone davanti. Allora, sei gabbiano e voli altrove. È un alibi, lo sai. Fai l’anagramma: ti dice Libia e ti stabilisci a Tripoli. Hai ventisei anni, una vita davanti. Ma ti accorgi che per viverla devi un po’ morire. Partire, sì. Io, per vivere, dovevo morire bassoliniano. Tony mi scuote: “Allora?”. Gli dico: “semmai io mi sono preso tutti i torti e ho lasciato a voi le ragioni”. S’infiamma: “Torti, ragioni: ma credi che qua ce ne siamo stati a sfumacchiare pensieri e parole? Ma l’hai vista la città? Da così a così”. Da seduto, la manica della giacca gli arretra mostrando un rolex butterato di diamanti. Provoco: “E tu, proprio tu, che avresti fatto?”. “La mia azienda fa consulenze per mezzo mondo. Te l’ho scritto: sto nel settore ambientale”. “Dove?”. “Giriamo, la sede legale è a Casal di Principe. Non l’hai capito che i mammasantissima, capiscimi, intendo i grandi politici, gli imprenditori, fanno la fila qua. Col cavalo che uscivano dalla crisi economica del 2009. Quelli qua sono venuti, hanno chiesto aiuto a chi di dovere. Voi come fate? Sai, per gli investimenti giusti. Quando sei nella merda a chi ti rivolgi? Agli spalatori ufficiali di merda e i napoletani nel genere sono i migliori. Come con Cirillo e il brigatismo. Ti ricordi? Lo Stato allora a chi bussò?”. Tra il losco e il fosco. Sulla testa mi si è acceso un neon: “Tony, ma tu ora da che parte stai? E io che pensavo che la Napoli migliore dovesse fare massa critica per salvare la città”. “Tu stai ancora alla parte, al peccato e alla metà della mela? È una questione di strati, non di parti. Come l’uovo. L’albume è nutriente, protettivo, cazzate. I napoletani finalmente hanno tirato fuori il tuorlo. Perché col bianco alla fine la frittata non la fai. Hai visto i monumenti coperti? Sporchi, rotti: mo’ basta. Ce li facciamo desiderare. E intanto ci sciacquiamo gli occhi con le taglie che ci offrono. Sono la nostra vetrina nel mondo? Allora, metteteci voi il prezzo visto che l’oggetto del desiderio non lo avrete mai. Tiè. Il mondo s’inchina. Sai perché? Perché ormai ha capito che non stava meglio di noi. Che mica è migliore di noi. Credimi: quando scopri la verità su chi ti sta accanto trovi la tua libertà. La menzogna degli altri è la tua libertà. E, come nella vita, allora non senti il bisogno né di amare, né di essere governato”. Il treno si ferma. Esco. Pianto Tony. E corro a pancia in giù per la città. Una smania. Via Roma, arrivo davanti al negozio di Napolimania. Tra gadget e ammennicoli la cerco: una maglietta di venti anni fa, con la scritta “Non sogno un mondo fatto solo di napoletani, sinò po’ a chi sfutimme”. Non c’è più. Al suo posto un’altra con l’effigie del Vesuvio, dalla cui bocca in eruzione fuoriesce il pianeta terra. E la scritta: “Salute! All’anema del ruttino”. Fuggo. Corro a casa. Sulla soglia, fuma di rabbia mia sorella: “Ma tu lo sai che domani mattina mi sposo? A quest’ora arrivi?”. “Certo che lo so. A proposito, qual è la chiesa?”. “Ma quale chiesa”. “Ah, in Municipio?”. “Diciamo. Al Castel dell’Ovo”. E penso a Tony: alla sua metafora dell’uovo e alla leggenda di Virgilio. I matrimoni al Castel dell’Ovo? Il bisogno di amare e di essere governato: le ultime parole di Tony mi rimbombano. Vent’anni di posta arretrata mi scrutano dal comodino. Inizio dal giorno dell’addio, il 26 giugno 2010. Un invito. Leggo. Apertura ufficiale di CA.MOR.RA. Un brivido. Ma è l’acronimo di un partito: CAmbiamento MORale della RAppresentanza. La sede è proprio Castel dell’Ovo. Il titolo dell’incontro: “Alle origini della città. Il peggio è il passato”.

Testo di Alessio Gemma, laureato con lode in Comunicazione istituzionale e d’impresa all’Università Suor Orsola Benincasa

I giovani talenti non vogliono fuggire e presentano le idee per rilanciare la città
Il Sabato delle idee si chiude con l’ottimismo della classe dirigente del futuro

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Sono stati i quattro giovani laureati eccellenti napoletani i grandi protagonisti dell’appuntamento conclusivo dell’edizione 2010 del Sabato delle Idee. Quattro diversi percorsi di studio, quattro diverse visuali sul futuro, ma un unico comune denominatore: la voglia di non mollare e di non lasciare Napoli, ma di contribuire a rilanciarla.

Le Idee dei giovani laureati eccellenti

Annalisa Scognamiglio, laureata con lode in Economia all’Università Federico II di Napoli, attualmente è dottoranda di ricerca in uno dei centri mondiali di alto prestigio, il , ma la sua formazione all’estero è propedeutica ad un ritorno a Napoli: “il mio auspicio – ha spiegato Annalisa Scognamiglio – è che si creino le condizioni per noi studenti all’estero di tornare a Napoli e mettere a frutto quello che abbiamo imparato. Noi vogliamo tornare, ma abbiamo bisogno che vi siano le condizioni per farlo. La Campania possiede enormi potenzialità, ma deve essere messa in condizione di liberare le sue grandi energie creative, troppo spesso e da troppo tempo frustrate da un superficiale schiacciamento dei valori a favore di logiche non meritocratiche. Tre sono i punti necessari per una svolta: finanziamenti mirati (non finanziamenti “a pioggia”), diffusione di una cultura della meritocrazia (che partendo dalle istituzioni deve diffondersi in tutti gli ambienti della società) e soprattutto trasparenza”.

Lorenzo Pone, musicista, uno degli allievi più brillanti del Conservatorio di Musica di San Pietro a Majello ha evidenziato il ruolo sociale della musica e dei musicisti e ha lanciato due proposte per valorizzare il patrimonio musicale della città: il restauro degli strumenti d’epoca e la creazione di un’orchestra giovanile a Napoli che sia la palestra per la formazione dei talenti per le grandi orchestre del futuro.

Angelo Farnetano, laureato con lode in ingegneria civile all’Università Federico II di Napoli, originario di Sapri e studente fuorisede a Napoli ha sottolineato, vista la sua esperienza, come “Napoli sia una città poco a misura di studente, manca di punti di aggregazione e di incontri per gli studenti” ma soprattutto ha espresso il desiderio di mettere immediatamente la sua esperienza formativa al servizio della città. “L’edilizia a Napoli presenta condizioni di pericolo e di degrado. Ultimamente si è sentito di palazzine sgomberate nei quartieri spagnoli per pericolo crollo e qualche mese fa è crollata una palazzina a Gianturco. Penso che molto vada ricostruito. La ricostruzione ci costerebbe meno della riqualificazione e poi è noto che a seguito di una ricostruzione c’è anche un rilancio economico. Inoltre in condizioni di degrado edilizio spesso è presente anche degrado culturale ed è lì che la malavita ha gioco facile. In alcune parti del mondo si sta pensando proprio di buttare giù intere città e ricostruirle”.

Alessio Gemma, laureato con lode in Comunicazione istituzionale e d’impresa all’Università Suor Orsola Benincasa la Napoli del futuro l’ha immaginata con un racconto di grande suggestione che ha scritto proprio per il Sabato delle Idee.

Leggi il racconto di Alessio Gemma “2030: la Napoli del futuro”

L’idea di Stefano Caldoro: Napoli, capitale del mercato del Mediterraneo

Il Governatore della Regione Campania Stefano Caldoro, dopo aver ascoltato con grande attenzione gli interventi dei giovani laureati, dell’urbanista Bernardo Secchi e dell’assessore allo sviluppo economico Sergio Vetrella, ha chiuso con il suo intervento l’edizione 2010 del Sabato delle Idee e lo ha fatto spiegando il rigore con cui la sua giunta ha deciso di impegnarsi per provare ad affrontare la difficile situazione di crisi finanziaria della Regione. Ma soprattutto ha voluto lanciare una ventata di ottimismo spiegando che nei prossimi anni la grande sfida che devono vincere Napoli e la Regione Campania è quella di trovare un ruolo importante nella nuova economia dei paesi del Mediterraneo. “Molti dei paesi del Mediterraneo – ha spiegato Caldoro – sono in forte crescita economica, a differenza di quanto accade ad i paesi dell’Europa centrale, e questo significa per Napoli e per la Campania che vi sono dei nuovi mercati verso cui è possibile guardare ed è sicuramente un’occasione che non bisogna assolutamente farsi sfuggire. La mia giunta s’impegnerà per creare le condizioni affinchè le imprese campane possano vincere questa sfida”.

Il Ministro Maroni e il Governatore Caldoro si confrontano con le idee dei giovani laureati eccellenti della città

Sabato 26 Giugno alla Fondazione SDN l’appuntamento conclusivo dell’Edizione 2010 del Sabato delle Idee

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Sabato 26 Giugno alle ore 10:30 presso la Sala Conferenze della Fondazione SDN (via Gianturco 113, Napoli) si svolgerà l’appuntamento conclusivo degli incontri di discussione dell’edizione 2010 de “Il Sabato delle Idee”.

L’incontro che sarà dedicato al tema “Napoli, la città del futuro” e sarà coordinato dal direttore de “Il Mattino”, Virman Cusenza, si svolgerà secondo una formula molto particolare che affiderà l’apertura della discussione a quattro giovani laureati napoletani eccellenti di quattro diverse discipline (ingegneria, economia, musica e scienze della comunicazione), il cui intervento ed il cui contributo di esperienza potrà rappresentare lo stimolo propositivo per il dibattito con gli autorevoli esponenti della classe di governo regionale e nazionale che saranno presenti all’incontro.

Seguiranno, infatti, gli interventi del governatore della Regione Campania Stefano Caldoro, dell’urbanista Bernardo Secchi e dell’assessore regionale allo sviluppo economico Sergio Vetrella.

Le conclusioni dell’incontro saranno affidate al Ministro degli Interni Roberto Maroni.

“La partecipazione a quest’incontro del Ministro Maroni e del Governatore Caldoro – spiega Marco Salvatore, fondatore della Fondazione SDN ed ideatore del Sabato delle Idee – ci consentirà di far sì che le tante idee nuove nate in queste prime due edizioni del Sabato delle Idee si possano confrontare con la classe dirigente del paese, realizzando quello che è sempre stato l’obiettivo fondante del Sabato delle Idee: non essere un momento di mera discussione fine a se stessa, che è un’arte improduttiva molto spesso, a buona ragione, attribuita agli intellettuali della nostra città, ma rendere il più possibile produttivi e propositivi questi momenti di incontro tra le diverse anime e le diverse professionalità della società civile e della classe politica napoletana e nazionale”.

“Ed in particolare la struttura che abbiamo previsto per questo ultimo incontro – prosegue Marco Salvatore – con l’apertura della discussione affidata a quattro giovani laureati napoletani eccellenti di quattro diverse discipline, vuole essere la testimonianza concreta di quanto in questa città in realtà siano presenti nuove idee e nuovi talenti che attendono soltanto di essere valorizzati al meglio, per costruire un futuro finalmente migliore”.

L’edizione 2010 de “Il Sabato delle Idee” è stata dedicata al tema “Napoli, le Utopie possibili” e si è svolta da Gennaio a Giugno ogni ultimo sabato del mese presso le sedi delle sei istituzioni promotrici della manifestazione: la Fondazione SDN, l’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa, il Pan – Palazzo delle Arti di Napoli, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, la Fondazione Idis – Città della Scienza ed il Conservatorio di Musica San Pietro a Majella.

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